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Napolitano-Di Pietro: un corto circuito mediatico

sabato, gennaio 31st, 2009

L’Italia è asfissiata e sclerotizzata. L’informazione italiana ha qualche problemino.

Di Pietro nella manifestazione di Piazza Farnese per il sostegno ai magistrati della Procura di Salerno sottoposta a trattamento di Ciesseemmizzazione coatta sostiene animatamente i suoi temi politici: no al lodo Alfano, no ai terroristi “cattivi maestri” degli anni ’70 che oggi fanno i “saputoni” in giro, no all’oblio per le vittime di mafia.
Un’accorata arringa sociale, un condivisibile o meno discorso politico di quelli di una volta, di quelli che si facevano sulle piazze. Che si condivida o meno, appare molto sostenibile l’idea che il suo discorso sia stato (volutamente?) frainteso, per colpa del circuito mediatico da esso originato con suoi annessi Big Problems così bene descritti da Peter Gomez qui.

Perchè?
Il discorso di Di Pietro in Piazza Farnese ha avuto una struttura logica alquanto semplice e lineare. Il politico richiama al bisogno di tutelare la libertà di parola, sostiene le sue idee circa l’attuale status giuridico delle alte cariche dello Stato, parla di tutela delle vittime di mafia, di necessità di coraggio civico per combattere la mentalità mafiosa. Un discorso che, in questi due ultimi argomenti, potrebbe benissimo essere quello del Capo dello Stato in uno dei suoi discorsi pubblici.

Se non fosse per la conclusione. Qui la gatta del corto circuito mediatico ci mette lo zampino.
Trascriviamo la conclusione “incriminata” del discorso dipietrista:
“Lo possiamo dire o no? Rispettosamente, rispettosamente…ma il rispetto è una cosa, il silenzio è un’altra (cosa, ndr). Il silenzio uccide, il silenzio è mafioso, il silenzio è un comportamento mafioso”.

Il nostro silenzio sarebbe mafioso, complice. Poi è vero che tace anche Napolitano, e per Di Pietro è criticabile. Ma se noi tacessimo su questo silenzio, allora adotteremmo un silenzio menefreghista e complice. Questo dice Di Pietro. Un politico, anche il Capo dello Stato, può assumere atteggiamenti che una legittima critica può definire sbagliati. Ma astenersi dalla critica, è ancora più sbagliato.

Per caso è vietato sostenere che l’atteggiamento di silenzio dei cittadini verso cose che ritengono negative è sbagliato? Per caso è bestemmia, è eversivo, è estremista, sostenere che se la gente ritiene che qualcosa sia sbagliato, abbia il diritto e il dovere di parlare, manifestare, persino urlare, ma “senza bastoni”?

Ma ecco il corto circuito. Poco prima infatti è stato fatto rimuovere dalla Polizia uno striscione con su scritto “Napolitano dorme, l’Italia insorge”. E Di Pietro si appella a Napolitano invocando la libertà di manifestazione del pensiero, garantita dalla Costituzione di cui il presidente è custode. Una libertà, evidentemente, che può permettersi un disaccordo civile anche contro i “silenzi” del Capo dello Stato. Un’opinione, perdinci.

Invece no. Parlare di silenzi del capo dello Stato è tabù.
Un’invettiva contro il menefreghismo invece va bene, ma se la fa un politico mainstream può anche parlare di silenzio omertoso nelle varie tavole rotonde antimafia. Se invece lo fa Di Pietro, ecco che da un’invettiva di carattere generale lanciata ai cittadini, a chi lo sta a sentire, si fa subito un collegamento capzioso, volutamente illogico, con la legittima critica lanciata poco prima al Capo dello Stato: “Il silenzio di Napolitano è mafioso”.
E invece no!!

“Il nostro silenzio su un silenzio, sarebbe complice, parente stretto del silenzio che uccide e ha ucciso”.

Un discorso di impegno civico, persino moderato, persino pacato, viene crocifisso e dipinto come estremista ed eversivo. Critichiamo tanto l’astensionismo, l’antipolitica, il menefreghismo dei giovani, e poi si crocifigge chi ci invita all’impegno.

Conta poco se l’informazione mediatica che lo dipinge come un discorso eversivo lo faccia deliberatamente, per incompetenza, per pregiudizio.
Secondo me in questo sillogismo sbagliato c’è un misto di pregiudizio antidipietrista, di pregiudizio positivo a priori per la presidenza della Repubblica (è ora di finirla, no? mica siamo in una teocrazia), di incompetenza di agenzie di stampa e redazioni varie, dettata dai ritmi frenetici dei giornali che si inseguono forsennatamente per essere alla fine tutti uguali.

Fretta, incompetenza, mancanza di riflessione logica, mancanza del giusto e sacrosanto ricorso alle fonti. A volte basta poco per andare a vedere veramente cosa abbia detto un politico. Ovviamente il circuito giornalistico funziona in gran parte grazie ai lanci d’agenzia. E proprio lì si creano i casini. La mancanza di approfondimento delle redazioni, la faciloneria di molti titolisti, le precise direttive politiche o le vaghe mancanze di amore verso quello che si fa, fanno il resto.

Questo corto circuito mediatico, menomale, una massa crescente di gente ha sempre più strumenti per svelarlo.

Perchè vergognarsi di essere poveri?

giovedì, gennaio 15th, 2009


(foto http://www.ansa.it)

Dicono che le Social Card del Governo siano dei “pacchi”. Vuote, senza soldi dentro perchè non è stato effettuato l’accredito, in alcuni casi. Un pasticcio all’italiana.
L’anziano in fila al supermercato tira fuori la cosiddetta “carta di credito dei poveri” per pagare il pane e un flacone di detersivo, ma il lettore Pos dice impietoso che non ci sono sghei, non ci sono soldi, nel dispositivo tremontiano.

Bene, anzi male. Sarà un problema tecnico. In Italia, a dire la verità, stupisce anche poco. Magari fra inps ministeri poste enti vari qualcuno ha dimenticato qualche passaggio.

Ma perchè bisogna vergognarsi di essere poveri, come dice l’articolo di Caporale su Repubblica? Il pezzo dà l’impressione di essere molto pompato a tavolino. Parte da un fatto reale, fornisce una notizia dal grande interesse pubblico e anche grave, per pomparci dentro impressioni in maniera artefatta, fortemente precostruita. La critica al governo diventa così un apriori, la sacrosanta opinione su un fatto di cronaca si mischia alla descrizione del fatto stesso.
Fin qui poco male: i confini fra cronaca e commento, già di per sè sfumati nel giornalismo italiano (e non è necessariamente un male, anche se dipende…), vengono sventrati con grande sapienza.

Punte di ironia quanto basta qui e là, giochi linguistici (“la carta annonaria”), citazioni ad cavulum canis come quando si cita il fatto che “per la social card a Catania un imbianchino ha preso a martellate il suo compagno di fila”.
Poi dicono che idraulici e imbianchini guadagnano tantissimo….
Su questo livello di discorso possiamo anche ricordare che un ragazzino mentre giocava in un parco per poco non ha perso un occhio perchè una foglia di palma l’ha preso sul muso. E dedurre che bisogna radere a zero i parchi nelle città. Sarebbe una corretta deduzione? Evidentemente no.

La social card è un qualcosa da criticare a priori, secondo questo spirito manifestato nel pezzo de La Repubblica. Benissimo. Un’opinione rispettabile come è rispettabile l’altra opinione, per cui si tratta di una goccia nell’oceano ma intanto meglio che niente. Basta che si semplifichino le procedure di accesso e che la situazione non sviluppi i soliti demenziali contorni italiani.

Quello che mi fa incazzare non è la critica sacrosanta. Mi fa incazzare che questo pezzo sostenga che essere poveri implica automaticamente vergogna di se stessi. “Alla fine si edifica questo incredibile muro della vergogna che attraversa la penisola e la trafigge senza colpa”. Ma stiamo scherzando?

Nessuno deve vergognarsi di essere povero. L’incazzatura per le carte magnetiche che non funzionano è sacrosanta. Ma la paranoia di esibire la social card alla cassa del supermercato, beh quella deve rimanere nelle teste e nelle tastiere di certo giornalismo viziato da un’opinione preconcetta*. Non importa se la social card funzioni o meno.

* formata a priori. Le opinioni preconcette offendono l’intelligenza dell’uomo. Perchè i fatti si giudicano dopo averli affrontati, conosciuti. Partire con i preconcetti vuol dire ritenere che la propria opinione sia più importante della realtà dei fatti. Un grande gesto di presunzione.